Luigi Einaudi morì cinquant’anni fa, il 30 ottobre 1961, a Roma. Ricoverato da qualche giorno in clinica per una broncopolmonite, sua moglie donna Ida capì che lo avrebbe irrimediabilmente perso quando s’accorse che non aveva più voglia di leggere.
Einaudi, in effetti, fu un maestro che fino all’ultimo – già superati, quindi, gli 87 anni – volle imparare. La sua curiosità era insaziabile. Per lui, l’essenziale era leggere sempre qualcosa di diverso da quanto già ci interessa. È il concetto che, dopo avermelo scritto in una lettera, mi aveva ripetuto quando – tre mesi prima della sua scomparsa – avevo avuto (poco più che ventenne) l’insperata fortuna di poterlo andare a trovare a Villa San Giacomo, in quel di Dogliani. E in questo concetto c’è gran parte dell'”uomo” Einaudi.
La curiosità era anche per Einaudi uno strumento di miglioramento, era anche per lui un mezzo d’ascendere continuo verso uno stato di completa autonomia. Un mezzo, insomma, di “liberazione”.
Il fine primo ed ultimo per il quale egli visse, lavorò ed insegnò, fu infatti, sempre, uno ed uno solo: la libertà. Una libertà non elargita dall’alto, ma conquistata dall’uomo con senso di responsabilità, con la coerenza, col lavoro; ma proprio per questo, e solo per questo, libertà vera, piena. L’uomo di Einaudi è un uomo che soffre, che all’egoismo contrappone la cooperazione, all’intolleranza la libertà.
Il suo tipo ideale di società, quello in cui egli vedeva pienamente tutelata l’esigenza fondamentale della libertà, Einaudi lo delineò magistralmente nelle “Lezioni di politica sociale”. Si fonda sulla libera economia di mercato, integrata da altri istituti che correggano ed eliminino disuguaglianze iniziali e terminali che sono il presupposto e il risultato della libertà di azione degli individui. L’economia di concorrenza (scrisse esplicitamente Einaudi in un articolo pubblicato il 2 aprile 1948 sul “Corriere della Sera”) è la macchina che produce ai minimi costi; si tratta di indurla a produrre quei beni che siano giudicati dai più come gli ottimi per la collettività.
“La via per raggiungere lo scopo – egli scrisse – è segnata da gran tempo. L’imposta in genere, se adoperata entro i limiti posti dall’esperienza allo scopo di non distruggere l’incentivo a produrre ed a migliorare, è strumento efficace a togliere gli alti papaveri ed a ridurre gli altissimi redditi a misure più modeste. Vi sono paesi come la Svizzera, e l’Inghilterra – aggiunse Einaudi – nei quali, con aliquote meno bestialmente alte di quelle vigenti in Italia ma osservate, le grandi fortune vanno diradandosi in modo siffatto da destare preoccupazioni rispetto alla possibilità di dare incentivo al nuovo risparmio”.
Quella che Einaudi chiama, appunto nelle sue “Lezioni”, l”uguaglianza nei punti di partenza”, è una concezione ardita, che pone in termini di libertà il problema sociale più rilevante (la distribuzione della ricchezza) e dà al liberalismo un contenuto coerente attraverso una concezione di uno Stato liberale “tutt’altro che inerte spettatore degli accidenti naturali e delle contese umane”.
Da quel grande economista che era, Einaudi propugnava l’economia di mercato sottolineando i vantaggi che essa sola è capace di apportare a tutti i cittadini indistintamente, sfruttando risorse ed iniziative di tutti per l’aumento della produzione e, quindi, del reddito collettivo ed individuale; ma questo non era neppure il motivo fondamentale che faceva schierare Einaudi tra i fautori del sistema di concorrenza.
La sua critica allo statalismo e al socialismo (definito, già all’inizio del secolo, “una predicazione vecchissima e frusta”) partiva da questa osservazione di carattere economico, ma si risolse nell’affermazione d’un principio che costituisce una grande conquista del pensiero moderno: essere, cioè, la libertà economica premessa e condizione essenziale della libertà politica. Senza la libertà economica si va inesorabilmente alla schiavitù.
È la nota dottrina dell’esistenza di un “punto critico” nell’interventismo statale, al di là del quale una società degenera e decade – più o meno coscientemente, comunque di fatto – nell’abolizione della libertà. “Guai allo Stato – scrisse Einaudi – nel quale la possibilità di occupazione e le maniere di vivere di troppi o di tutti i cittadini dipendono da un unico signore!”.
La società cui pensava Einaudi non è una accolita di fannulloni: “Abbiamo bisogno di uomini intelligenti ed abili cresciuti in un ambiente di libertà, e non di infingardi che tutto aspettano dal favore dei pubblici poteri”, scrisse una volta; e un’altra: “L’uomo liberale vuole che la società nella quale egli vive, sia varia, ricca di forze indipendenti le une dalle altre, in cui industriali e lavoratori, leghe padronali e leghe operaie liberamente discutano, si affrontino e lottino. Egli ama la lotta ed ha in abominio l’ubbidienza ad un solo capo. La lotta è vita, il conformismo è morte”.
Così pensava Einaudi, ed il suo insegnamento torna alla mente oggi, in un periodo di sbandamento – ideologico, politico, economico e soprattutto morale – quale l’Italia contemporanea non ha mai conosciuto e che è gran parte delle crisi di valori senza precedenti, che tutti ci preoccupa.
Corrado Sforza Fogliani
Cinquant’anni fa morì Luigi Einaudi, un maestro di libertà
di 1 Novembre 2011Commenta