Il disegno di legge presentato dal Governo recante le nuove misure in tema di repressione della prostituzione, oltre a prevedere alcune norme che senz’altro contribuiranno a perfezionare la legge Merlin, presenta una disposizione che lascia davvero perplessi.
Si tratta della norma volta ad introdurre all’interno dell’art. 1 della legge Merlin il comma 2 bis, in base al quale è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 250 fino ad euro 10.000 “chiunque, avendone la proprietà o l’amministrazione, conceda in locazione una casa nella quale venga esercitata la prostituzione, a canoni superiori a quelli di mercato”.
Chiara l’intenzione del legislatore: le condizioni economiche della locazione, se superiori a quelle comunemente praticate, costituirebbero una sorta di indice di sfruttamento della prostituzione, che esporrebbe il proprietario o l’amministratore dell’immobile anche alla confisca del medesimo, oltre che alle altre sanzioni penali già ricordate.
A ben vedere, tuttavia, il parametro previsto dal Governo corre il rischio di rappresentare, più che un indice di sfruttamento, una presunzione del medesimo: una volta accertato lo svolgimento dell’attività di prostituzione all’interno di un immobile locato ad un canone più elevato rispetto a quello di mercato, il proprietario (o l’amministratore) potrebbero andare esenti dalla responsabilità penale solo fornendo la prova (in negativo) della loro completa mancanza di conoscenza circa quanto in realtà accadesse nell’immobile medesimo, prova questa che può essere meno che agevole da fornire in numerose situazioni.
Tale considerazione è avvalorata anche dal fatto che già l’art. 1 comma 2 della legge Merlin – al quale si affiancherebbe il nuovo comma 2 bis in esame – stabilisce che soggiace alle medesime sanzioni penali di cui si è già detto “chiunque, avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa od altro locale, li conceda in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione”.
In relazione all’ipotesi attualmente in vigore, pertanto, è necessario che sia la Pubblica Accusa a fornire la dimostrazione che il cedente l’immobile non solo fosse consapevole dell’esercizio in quel luogo della prostituzione, ma anche che la cessione fosse stata orientata proprio a tale fine.
Un ulteriore aspetto di perplessità è rappresentato poi dal riferimento ai “canoni superiori a quelli di mercato”: va detto subito che non esiste alcun parametro né alcun indice, ufficiale o ufficioso, per la determinazione di tale valore.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’indeterminatezza della formula legislativa potrà portare a mancanza di certezze sul piano applicativo – carenza questa che non può essere accettata in diritto penale – oltre che dar luogo anche a possibili disomogeneità operative della norma.
A ciò si aggiunga che, in concreto, non sarebbe di immediata soluzione il tema dell’accertamento della superiorità del canone alle effettive condizioni di mercato. Sul versante giudiziale, tale accertamento richiederebbe quasi sempre l’espletamento di una consulenza tecnica o di una perizia: è infatti noto a tutti come vi siano molte variabili (posizione, grado di manutenzione, presenza e qualità dell’eventuale mobilio, e così via) che possono influenzare, anche sensibilmente, la determinazione del canone di locazione, senza per questo che da tali condizioni possano essere derivati effetti deteriori per il locatore, come sembrerebbe ipotizzabile dalla lettura delle norma in esame.
Avv. Niccolò Bertolini
Coordinatore Ufficio Studi di Diritto Penale di Assoedilizia